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Nella prima metà del Novecento, Edward Sapir e Benjamin Whorf notarono che lingue diverse descrivevano spesso la stessa situazione in modi grammaticalmente diversi.

Espressa oggi, in questo modo, può sembrare una banalità. Dobbiamo però considerare che i due antropologi e linguisti si trovavano in un’epoca vergine, in cui si stavano ancora definendo i concetti di linguaggio, grammatica e comunicazione. Quindi non si trattava di un’osservazione da poco.

Partendo da lì, Sapir e Whorf fecero un passo in più. Supponendo una relazione stretta tra i processi cognitivi alla base del linguaggio e la forma finale di una specifica grammatica, arrivarono a ipotizzare che la lingua ha il potere di influenzare la visione del mondo.

Questa teoria, nota come ipotesi di Sapir-Whorf o principio di relatività linguistica, ha suscitato nel tempo svariate controversie – soprattutto per la sua difficoltà di dimostrazione. Ma ha anche dato origine ad elaborazioni più estreme.

La cosiddetta versione “forte” di questa teoria, nota anche come determinismo linguistico, riconduce i modelli di pensiero e cultura ai modelli grammaticali. Questo significa, ad esempio, che una lingua in cui i sostantivi sono classificati per genere dovrebbe dare origine a una cultura in cui la divisione di genere ha un ruolo chiave nell’attribuzione delle etichette sociali. Di contro, lingue in cui esiste un solo pronome di terza persona (come ad esempio il fulfulde) dovrebbero generare modelli di pensiero, e quindi culture, in cui la differenza tra maschi e femmine non viene percepita.

Secondo i sostenitori di questa teoria, cambiare la grammatica di una lingua porterebbe inevitabilmente a un cambiamento nei modelli di pensiero e comportamento di chi la parla.

La teoria del determinismo linguistico ha presentato da subito un certo numero di problemi.

Innanzitutto, i modelli sociali di supremazia maschile sono molto frequenti anche in culture che parlano lingue in cui non vi è distinzione di genere. Poi, ogni lingua offre ai suoi parlanti svariati modi per descrivere il mondo – e questo rende difficile tracciare un collegamento netto tra struttura grammaticale e modelli di pensiero. Inoltre, se la teoria fosse corretta, una persona bilingue sperimenterebbe un conflitto di interpretazione dell’esperienza così forte da condurre alla schizofrenia. Eppure, nella maggior parte delle società del mondo, il monolinguismo è un’eccezione – così come la schizofrenia.

Infine, se la corrispondenza tra forme del linguaggio e forme del pensiero fosse tanto rigida, tradurre un testo conservandone il senso sarebbe impossibile. E forse sarebbe impossibile persino imparare un’altra lingua.

Nonostante la fallacità, la versione forte dell’ipotesi di Sapir-Whorf ci ha regalato una perla della letteratura. Per il suo 1984, G. Orwell inventa infatti la neolingua (newspeak) che, sfruttando il potere di manipolazione della grammatica dovrebbe diventare il più potente strumento di controllo sociale del Socing.

Letteratura a parte… Né Sapir né Whorf erano favorevoli al determinismo linguistico.

Secondo Sapir, separare del tutto la realtà oggettiva dai simboli linguistici utilizzati per descriverla non era possibile. Quindi, il ruolo della lingua nel triangolo linguaggio-pensiero-cultura consisteva soprattutto nel dirigere l’attenzione dei parlanti su certi aspetti dell’esperienza anziché su altri.

Whorf fece invece la fine dei visionari. Criticato e non compreso dai suoi contemporanei, morì prima di riuscire ad elaborare un linguaggio teorico adatto a presentare la grammatica sotto una nuova luce.